La partita IVA fittizia e la presunzione di subordinazione
Negli anni recenti in Italia si è mosso qualcosa nella lotta al lavoro nero e all’evasione fiscale. In questo ambito rientra certamente anche la normativa sulla presunzione di subordinazione 2019, a seguito del Jobs Act n.81/2015. Al suo interno è stato infatti introdotto un nuovo regime che considera collaborazioni sia di tipo parasubordinato che in qualità di lavoratore autonomo come lavoro subordinato al verificarsi di determinate condizioni.
Lavoro subordinato con partita IVA fittizia
Gli imprenditori sono sempre più riluttanti a farsi carico dell’assunzione di un lavoratore a tempo indeterminato. La tendenza è quella di affidarsi a una struttura, spesso anche risicata, di dipendenti per il lavoro primario. Per poi assegnare progetti, o singole mansioni a liberi professionisti che gravitano attorno all’impresa. Il problema nasce però quando il rapporto di lavoro tra impresa e freelancer inizia a cambiare e prendere i caratteri di semplice lavoro dipendente. Solo senza le stesse certezze per il lavoratore.
Volendo citare quanto contenuto nell’atto stesso, sono da considerarsi come prestazioni subordinate tutte le “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, ripetitive ed organizzate dal committente rispetto al luogo ed all’orario di lavoro”.
L’obiettivo dell’introduzione della presunzione di lavoro subordinato, norma antecedente di 3 anni al Jobs Act, era quello di individuare e smascherare tutti quei contratti che dietro a una presunta collaborazione più o meno occasionale e basata su partita IVA, nascondono di fatto dei rapporti di lavoro subordinati.
Le condizioni per il verificarsi della presunzione
Nel decreto sono contenute tre condizioni che, al loro verificarsi, danno il là alla presunzione di lavoro dipendente, stabilendo di fatto che si tratta di una partita IVA fittizia. Le condizioni riguardano il rapporto personale con il possessore della partita IVA, la durata dell’attività svolta, e le modalità della stessa.
- Prestazione di lavoro personale: il lavoro deve riguardare unicamente la persona in possesso della partita IVA, senza che questa si affidi a collaboratori o sostituti del caso.
- Continuità: l’attività non prevede un termine o scadenza.
- Organizzazione e ripetizione: il committente stabilisce orari e luogo di lavoro per lo svolgimento dell’attività lavorativa del lavoratore autonomo.
Per determinare però quando le prestazioni di lavoro svolte da persone con partita IVA vadano riqualificate come lavoro dipendente a tutti gli effetti, ci sono altri tre criteri. Al verificarsi di due di questi, il lavoro non è più da considerarsi autonomo.
- Temporale: massimo 8 mesi all’anno per 2 anni consecutivi, corrispondenti a 241 giorni all’anno. Si considera l’anno civile (365 giorni esatti all’anno). Come elemento probatorio possono essere utilizzate lettere di incarico e fatture, che indichino un periodo di attività, così come testimonianze di terzi.
- Fatturato: il corrispettivo fatturato corrisponde a più dell’80 % del fatturato del lavoratore autonomo nell’arco di due anni consecutivi. Il conteggio del tempo è retroattivo.
- Organizzativo: il committente assegna una postazione di lavoro fissa al lavoratore, presso una delle sue sedi. Non deve essere necessariamente una postazione esclusiva o includere l’utilizzo di attrezzature o tecnologie di alcun tipo.
La presunzione ammette la possibilità di confutare che si tratti di lavoro dipendente.
Eccezioni alla presunzione di lavoro subordinato
Non si tratta di partita IVA fittizia e non rientrano quindi sotto la presunzione di lavoro subordinato tutte quelle professioni che richiedono l’iscrizione a un ordine professionale, ad albi, ruoli o elenchi professionali qualificati, dove sono previsti requisiti e condizioni specifiche.
Inoltre, vanno esclusi dalla presunzione di lavoro subordinato anche i casi in cui si verificano due condizioni. La prima è che per lo svolgimento dell’attività lavorativa in oggetto siano necessarie competenze teoriche elevante o capacità pratiche, acquisite in vario modo (ad esempio corsi di formazione) durante l’esercizio dell’attività stessa. La seconda è che il lavoratore a partita IVA abbia un reddito annuo lordo derivante dal lavoro autonomo non inferiore a 1,25 volte il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali (articolo 1, comma 3, legge del 2 agosto 1990, n. 233).
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